Il ritorno dei "Montanari" in montagna
Tra i tanti temi che interessano il mondo della montagna, soprattutto alpina, uno di quelli che amo di più è quello legato alla vivibilità di queste terre, ovvero alla possibilità di abitare stabilmente nelle Terre Alte sfruttando le risorse locali in maniera ovviamente equilibrata e sostenibile, producendo ricchezza, benessere, tutela della natura e non ultimo un turismo maturo, moderno e a basso impatto ambientale.
Tutto questo è possibile?
A mio avviso si perché questi luoghi ben si adattano a sviluppare nuove economie e nuovi stili di vita, impossibili ormai da attuare nelle pianure industrializzate. Vi propongo allora come approfondimento al tema due contributi; il primo tratto dal bell'articolo uscito per il periodico Scienze del Territorio di Federica Corrado (presidente di Cipra Italia) dal titolo "Abitare nei territori alpini di oggi: nuovi paradossi e l’esigenza di politiche abitative innovative" e il secondo tratto da un dossier "Visioni" a firma di Giuseppe Dematteis (Presidente Associazione Dislivelli).
Tutto questo è possibile?
A mio avviso si perché questi luoghi ben si adattano a sviluppare nuove economie e nuovi stili di vita, impossibili ormai da attuare nelle pianure industrializzate. Vi propongo allora come approfondimento al tema due contributi; il primo tratto dal bell'articolo uscito per il periodico Scienze del Territorio di Federica Corrado (presidente di Cipra Italia) dal titolo "Abitare nei territori alpini di oggi: nuovi paradossi e l’esigenza di politiche abitative innovative" e il secondo tratto da un dossier "Visioni" a firma di Giuseppe Dematteis (Presidente Associazione Dislivelli).
Nel Rapporto sul disagio insediativo in Italia di Confcommercio Legambiente (Cresme 2008) emerge che molti territori dell’arco alpino italiano, principalmente Piemonte, Liguria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, presentano una dinamica demografica negativa caratterizzata da scarsa natalità, una struttura commerciale polverizzata e un patrimonio abitativo essenzialmente non occupato. Ancora, nel Rapporto Cipra "Noi e Le Alpi" (2007, 26), si legge che il saldo demografico nelle Alpi al 2001 è positivo con un valore pari al 3,5% su tutto l’arco alpino, ma “il saldo delle nascite è circa la metà del saldo migratorio, il che significa che l’incremento demografico nelle Alpi fra il 1981 e il 2001 è dovuto per due terzi all’immigrazione e per un terzo al saldo positivo delle nascite”. Come si evince ancora dalla quinta Relazione sullo stato delle Alpi (Convenzione delle Alpi 2015, 38). Va registrato però un cambiamento nel trend demografico che va sostanzialmente messo in relazione all’arrivo di nuovi abitanti. Uno studio condotto recentemente proprio su questo tema (Corrado et Al. 2014) ha messo in evidenza che i fattori che spingono a localizzarsi dentro le Alpi riguardano le risorse territoriali specifiche (in particolare disponibilità di aree da coltivare, legno, acqua, ma anche clima salubre, paesaggio piacevole, cultura locale, costo della vita più basso in molti casi, offerta di lavoro e possibilità di fare attività outdoor). Si tratta di risorse che vengono re-interpretate in modo diverso dai nuovi abitanti a seconda dei loro obiettivi e del loro progetto di vita, a tal punto che si possono riconoscere differenti ‘categorie di nuovi abitanti’, dagli amenity migrants ai pionieri eroici ai soggetti in terza età, etc.. L’aspetto interessante che emerge da questo studio riguarda il fatto che questo recente fenomeno migratorio interessa due aree specialmente: l’area urbana, ovvero le piccole e medie città che fungono da regione centrale rispetto al territorio circostante, in grado di offrire tutta una serie di servizi socio-assistenziali, sanitari, scolastici etc., e le aree marginali, non coinvolte nei grandi processi di urbanizzazione e dunque ancora preservate da inquinamento culturale, architettonico etc., che dispongono però di un capitale territoriale ancora intatto.
Se nel secolo passato, come abbiamo detto nel primo paragrafo, il concetto di abitare la montagna è stato posto in relazione all’avvicendarsi di eventi specifici legati a forme di economia generate da una matrice essenzialmente urbana (l’offerta di posti di lavoro in città, più facili condizioni di vita, costruzione di un desiderio consumistico di montagna, etc.), le quali hanno modellato il paesaggio e definito un certo stile dell’abitare oscillante tra la baita sperduta in alpeggio (utile a preservare il mito di Heidi), il condominio multipiano per accogliere i turisti delle seconde casa e la villetta su lotto spesso ri-produzione kitsch di un mondo fiabesco, oggi questo concetto assume forme diverse, diventando una nozione poliedrica e ibrida in cui le tradizionali categorie cognitive dell’urbanistica, dell’architettura e della geografia legate al mondo rurale vanno ri-pensate mescolando natura e cultura, urbanità e ruralità, fissità e mutamento. Raffestin (1989) sostiene che vivere nelle Alpi richiede di porre attenzione a tre logiche: quella dell’ambiente, quella della società e quella degli organismi viventi che si combinano in un continuo ri-equilibrio. Queste tre logiche, che sono assolutamente alla base ancora oggi del vivere nelle Alpi, vengono dunque ri-mescolate all’interno di alcuni territori alpini, dove le nuove traiettorie dello sviluppo sconvolgono le dinamiche tradizionali e determinano dei paradossi. Paradossi in cui le aree marginali diventano attrattive in una logica di re-insediamento (Bertolino 2014; Uncem 2015; Zanini 2013), diventano terreno di sperimentazione di nuove forme economiche e culturali (Corrado, Dematteis 2013) e allo stesso tempo le piccole e medie aree urbane inglobano vere e proprie dinamiche urbane (tipiche dei contesti urbani di pianura) acquistando di conseguenza anche un diverso ruolo sulla scena alpina e panalpina (Corrado 2015). Abitare in una città alpina ben servita e infrastrutturata sta oggi dando concretezza a quello stesso “ossimoro compiuto” (Ketzich 2015) insito nel concetto stesso di città alpina. La messa in atto di politiche di sviluppo che mixano quell’insieme di risorse alpine del capitale territoriale con idee, informazioni, flussi che attraversano questi territori va via via definendo un humus urbano alpino quale luogo adatto all’innovazione, non diversamente dai contesti urbani di pianura, rispetto ai quali anzi fornisce un valore aggiunto.
SPOPOLAMENTO E NUOVI MONTANARI (di Giuseppe Dematteis - Dislivelli).
Le statistiche ufficiali ci dicono che, tra gli ultimi due censimenti (2001 e 2011), nel 54% dei comuni montani italiani la popolazione residente ha continuato a ridursi, con forti differenze tra il Nord e il Sud dove, in regioni come la Basilicata e la Calabria, si supera il 75% (Fondazione Montagne Italia 2015). Nelle Alpi italiane, benché la crescita intercensuale sia stata di 212.656 unità, poco meno della metà del territorio - quello più interno e meno densamente abitato - non è stato interessato da questa ripresa. In queste condizioni si trova tuttora, nella regione alpina, un’area di circa 22.000 Kmq che equivale al 18% del Nord Italia. Se aggiungiamo la montagna appenninica e delle grandi isole che si trova nelle stesse condizioni, la superficie complessiva dei comuni montani tuttora in condizioni di spopolamento e di abbandono è intorno al 20% di quella nazionale. Ciò è grave almeno per tre motivi. Il primo è che circa un milione di italiani non sono liberi di continuare a vivere dove attualmente risiedono (e dove molti di loro sono nati) a causa delle condizioni di marginalità e di isolamento che limitano di fatto i loro diritti di cittadinanza. Il secondo è che nei territori montani in abbandono ci sono ingenti risorse agrarie, idriche, forestali, ambientali, paesaggistiche e culturali poco o male utilizzate, che potrebbero contribuire in modo non indifferente all’occupazione, alla ricchezza e al benessere nazionale. Terzo motivo: le nostre montagne sono territori fragili, con versanti instabili, dove la cura degli abitanti è indispensabile per ridurre i rischi idrogeologici e idraulici che minacciano gravemente le valli e le antistanti pianure urbanizzate. Sono problemi di rilevanza nazionale che si possono risolvere solo con il mantenimento di un’adeguata popolazione stabile e con l’insediamento di nuovi abitanti là dove il presidio demografico è ormai al di sotto della soglia minima per la sua riproduzione.In questa difficile situazione non mancano però alcuni segnali positivi. Recenti studi sulla demografia della montagna europea e su quella alpina in particolare (Cipra 2007; Pascolini 2008; Euromontana 2008; Corrado 2013; Varotto 2013; Convenzione delle Alpi 2015; Fondazione montagne Italia 2015) mostrano che negli ultimi decenni si è avviata – in Europa come in Italia – una ripresa demografica in alcune aree della montagna interna che nei decenni precedenti avevano subito un forte spopolamento. Si tratta di un processo di re-insediamento ancora limitato nei numeri, ma che rivela un nuovo modo di pensare la montagna, non più soltanto come spazio marginale, ma anche come luogo dotato di condizioni di vita attrattive e di risorse locali che possono dare reddito e occupazione. Lo conferma un’indagine sui “nuovi montanari” (Corrado et Al. 2014) che l’associazione “Dislivelli”1 ha condotto lungo tutto l’arco alpino italiano con un’analisi dei nuovi iscritti negli anni 2009-2011 e una serie di interviste ai nuovi insediati. Ne risultano tre grandi gruppi di motivazioni. La prima, quella degli “amenity migrants” (Moss 1996), è di tipo prevalentemente esistenziale. Consiste nel desiderio di fruire, in modo non più solo occasionale ma continuativo (anche solo per alcuni mesi nell’anno), di una qualità ambientale che già prima si era apprezzata nelle vacanze o nei fine settimana. Ciò è possibile non solo a chi gode di una pensione, ma anche a chi continua a svolgere il proprio lavoro con internet o come pendolare, o ancora a chi si accontenta di lavori locali, anche modesti, allo scopo di intrattenere un rapporto appagante con l’ambiente naturale e umano del posto. Le motivazioni del secondo gruppo – formato in buona parte da migranti da paesi poveri – sono dettate invece dalla necessità di trovare un minor costo della casa e della vita in genere, e sovente un’accoglienza migliore di quella dei centri urbani, unita a opportunità locali di lavoro (edilizia, servizi a domicilio ecc.) e, nelle basse valli, alla facilità di accesso al mercato del lavoro pedemontano. A questi si vanno ora aggiungendo i profughi. L’ultimo gruppo di motivazioni, pur condividendo in parte quelle dei due gruppi precedenti, ha come ragione fondamentale quella di utilizzare in vari modi – generalmente sostenibili – risorse e opportunità sovente ignorate o sottovalutate dalla popolazione locale. Si tratta delle avanguardie di una green economy che può diventare il principale motore di una nuova centralità, anche economica, della montagna, con doppia valenza: mostrare il valore dell’ambiente montano e farne il laboratorio sperimentale di una possibile transizione verso un’economia e una società che incorpora il limite nel suo processo di sviluppo. Il fenomeno del re-insediamento contribuisce a sfatare il pregiudizio secondo cui la marginalità della montagna è strutturale, ovvero una sorta di handicap naturale permanente che ne fa un ambiente oggi non più vivibile, quindi da lasciare a processi spontanei di ri-naturalizzazione. In realtà, la marginalità della montagna abitabile non deriva da cause naturali, ma dall’assenza di politiche e di interventi che ne facciano un contesto vivibile, in condizioni di facile accesso ai servizi essenziali e all’utilizzo delle sue molte risorse. Il difetto di tali condizioni è al tempo stesso causa ed effetto della bassa densità demografica e quindi di una socialità rarefatta, del degrado del capitale sociale, istituzionale e cognitivo locale, oltre che della debolissima rappresentanza politica delle aree montane nel loro complesso.
Se nel secolo passato, come abbiamo detto nel primo paragrafo, il concetto di abitare la montagna è stato posto in relazione all’avvicendarsi di eventi specifici legati a forme di economia generate da una matrice essenzialmente urbana (l’offerta di posti di lavoro in città, più facili condizioni di vita, costruzione di un desiderio consumistico di montagna, etc.), le quali hanno modellato il paesaggio e definito un certo stile dell’abitare oscillante tra la baita sperduta in alpeggio (utile a preservare il mito di Heidi), il condominio multipiano per accogliere i turisti delle seconde casa e la villetta su lotto spesso ri-produzione kitsch di un mondo fiabesco, oggi questo concetto assume forme diverse, diventando una nozione poliedrica e ibrida in cui le tradizionali categorie cognitive dell’urbanistica, dell’architettura e della geografia legate al mondo rurale vanno ri-pensate mescolando natura e cultura, urbanità e ruralità, fissità e mutamento. Raffestin (1989) sostiene che vivere nelle Alpi richiede di porre attenzione a tre logiche: quella dell’ambiente, quella della società e quella degli organismi viventi che si combinano in un continuo ri-equilibrio. Queste tre logiche, che sono assolutamente alla base ancora oggi del vivere nelle Alpi, vengono dunque ri-mescolate all’interno di alcuni territori alpini, dove le nuove traiettorie dello sviluppo sconvolgono le dinamiche tradizionali e determinano dei paradossi. Paradossi in cui le aree marginali diventano attrattive in una logica di re-insediamento (Bertolino 2014; Uncem 2015; Zanini 2013), diventano terreno di sperimentazione di nuove forme economiche e culturali (Corrado, Dematteis 2013) e allo stesso tempo le piccole e medie aree urbane inglobano vere e proprie dinamiche urbane (tipiche dei contesti urbani di pianura) acquistando di conseguenza anche un diverso ruolo sulla scena alpina e panalpina (Corrado 2015). Abitare in una città alpina ben servita e infrastrutturata sta oggi dando concretezza a quello stesso “ossimoro compiuto” (Ketzich 2015) insito nel concetto stesso di città alpina. La messa in atto di politiche di sviluppo che mixano quell’insieme di risorse alpine del capitale territoriale con idee, informazioni, flussi che attraversano questi territori va via via definendo un humus urbano alpino quale luogo adatto all’innovazione, non diversamente dai contesti urbani di pianura, rispetto ai quali anzi fornisce un valore aggiunto.
Le statistiche ufficiali ci dicono che, tra gli ultimi due censimenti (2001 e 2011), nel 54% dei comuni montani italiani la popolazione residente ha continuato a ridursi, con forti differenze tra il Nord e il Sud dove, in regioni come la Basilicata e la Calabria, si supera il 75% (Fondazione Montagne Italia 2015). Nelle Alpi italiane, benché la crescita intercensuale sia stata di 212.656 unità, poco meno della metà del territorio - quello più interno e meno densamente abitato - non è stato interessato da questa ripresa. In queste condizioni si trova tuttora, nella regione alpina, un’area di circa 22.000 Kmq che equivale al 18% del Nord Italia. Se aggiungiamo la montagna appenninica e delle grandi isole che si trova nelle stesse condizioni, la superficie complessiva dei comuni montani tuttora in condizioni di spopolamento e di abbandono è intorno al 20% di quella nazionale. Ciò è grave almeno per tre motivi. Il primo è che circa un milione di italiani non sono liberi di continuare a vivere dove attualmente risiedono (e dove molti di loro sono nati) a causa delle condizioni di marginalità e di isolamento che limitano di fatto i loro diritti di cittadinanza. Il secondo è che nei territori montani in abbandono ci sono ingenti risorse agrarie, idriche, forestali, ambientali, paesaggistiche e culturali poco o male utilizzate, che potrebbero contribuire in modo non indifferente all’occupazione, alla ricchezza e al benessere nazionale. Terzo motivo: le nostre montagne sono territori fragili, con versanti instabili, dove la cura degli abitanti è indispensabile per ridurre i rischi idrogeologici e idraulici che minacciano gravemente le valli e le antistanti pianure urbanizzate. Sono problemi di rilevanza nazionale che si possono risolvere solo con il mantenimento di un’adeguata popolazione stabile e con l’insediamento di nuovi abitanti là dove il presidio demografico è ormai al di sotto della soglia minima per la sua riproduzione.In questa difficile situazione non mancano però alcuni segnali positivi. Recenti studi sulla demografia della montagna europea e su quella alpina in particolare (Cipra 2007; Pascolini 2008; Euromontana 2008; Corrado 2013; Varotto 2013; Convenzione delle Alpi 2015; Fondazione montagne Italia 2015) mostrano che negli ultimi decenni si è avviata – in Europa come in Italia – una ripresa demografica in alcune aree della montagna interna che nei decenni precedenti avevano subito un forte spopolamento. Si tratta di un processo di re-insediamento ancora limitato nei numeri, ma che rivela un nuovo modo di pensare la montagna, non più soltanto come spazio marginale, ma anche come luogo dotato di condizioni di vita attrattive e di risorse locali che possono dare reddito e occupazione. Lo conferma un’indagine sui “nuovi montanari” (Corrado et Al. 2014) che l’associazione “Dislivelli”1 ha condotto lungo tutto l’arco alpino italiano con un’analisi dei nuovi iscritti negli anni 2009-2011 e una serie di interviste ai nuovi insediati. Ne risultano tre grandi gruppi di motivazioni. La prima, quella degli “amenity migrants” (Moss 1996), è di tipo prevalentemente esistenziale. Consiste nel desiderio di fruire, in modo non più solo occasionale ma continuativo (anche solo per alcuni mesi nell’anno), di una qualità ambientale che già prima si era apprezzata nelle vacanze o nei fine settimana. Ciò è possibile non solo a chi gode di una pensione, ma anche a chi continua a svolgere il proprio lavoro con internet o come pendolare, o ancora a chi si accontenta di lavori locali, anche modesti, allo scopo di intrattenere un rapporto appagante con l’ambiente naturale e umano del posto. Le motivazioni del secondo gruppo – formato in buona parte da migranti da paesi poveri – sono dettate invece dalla necessità di trovare un minor costo della casa e della vita in genere, e sovente un’accoglienza migliore di quella dei centri urbani, unita a opportunità locali di lavoro (edilizia, servizi a domicilio ecc.) e, nelle basse valli, alla facilità di accesso al mercato del lavoro pedemontano. A questi si vanno ora aggiungendo i profughi. L’ultimo gruppo di motivazioni, pur condividendo in parte quelle dei due gruppi precedenti, ha come ragione fondamentale quella di utilizzare in vari modi – generalmente sostenibili – risorse e opportunità sovente ignorate o sottovalutate dalla popolazione locale. Si tratta delle avanguardie di una green economy che può diventare il principale motore di una nuova centralità, anche economica, della montagna, con doppia valenza: mostrare il valore dell’ambiente montano e farne il laboratorio sperimentale di una possibile transizione verso un’economia e una società che incorpora il limite nel suo processo di sviluppo. Il fenomeno del re-insediamento contribuisce a sfatare il pregiudizio secondo cui la marginalità della montagna è strutturale, ovvero una sorta di handicap naturale permanente che ne fa un ambiente oggi non più vivibile, quindi da lasciare a processi spontanei di ri-naturalizzazione. In realtà, la marginalità della montagna abitabile non deriva da cause naturali, ma dall’assenza di politiche e di interventi che ne facciano un contesto vivibile, in condizioni di facile accesso ai servizi essenziali e all’utilizzo delle sue molte risorse. Il difetto di tali condizioni è al tempo stesso causa ed effetto della bassa densità demografica e quindi di una socialità rarefatta, del degrado del capitale sociale, istituzionale e cognitivo locale, oltre che della debolissima rappresentanza politica delle aree montane nel loro complesso.
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A testimonianza del ritorno della gente e soprattutto dei giovani in montagna è stato realizzato non molto tempo fa il cortometraggio Montanari 3.0; trattasi di un video doc prodotto da Dislivelli grazie al sostegno di Aku trekking&outdoor per la regia di Raffaella Rizzi quale strumento importante per Dislivelli allo scopo di comunicare i risultati di due anni di ricerche anche ad un pubblico di "non addetti ai lavori". Dopo oltre 30 proiezioni pubbliche lungo l'intero arco alpino, una serata dedicata al Trento Film Festival 2015 e molti altri riconoscimenti, viene reso oggi disponibile per intero sul canale Youtube. Buona visione!
A testimonianza del ritorno della gente e soprattutto dei giovani in montagna è stato realizzato non molto tempo fa il cortometraggio Montanari 3.0; trattasi di un video doc prodotto da Dislivelli grazie al sostegno di Aku trekking&outdoor per la regia di Raffaella Rizzi quale strumento importante per Dislivelli allo scopo di comunicare i risultati di due anni di ricerche anche ad un pubblico di "non addetti ai lavori". Dopo oltre 30 proiezioni pubbliche lungo l'intero arco alpino, una serata dedicata al Trento Film Festival 2015 e molti altri riconoscimenti, viene reso oggi disponibile per intero sul canale Youtube. Buona visione!
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