Il fenomeno delle Vie Ferrate, tra favorevoli e contrari.



Sta per iniziare un'altra stagione estiva in montagna, cioè quel periodo dell’anno che per definizione risulta il più adatto per progettare escursioni, trekking, arrampicate oppure percorrere le tanto gettonate vie ferrate; quegli itinerari spesso in alta quota e su zone rocciose impervie che solo la bella e calda stagione permette di affrontare.

Quella delle vie ferrate è senza dubbio l’attività outdoor più alla moda ed in continua espansione di questi ultimi anni, sia per il crescente numero di appassionati frequentatori sia per il continuo proliferare di questi impianti in tutto l’arco alpino.

Ma le vie ferrate non sono una realtà solamente degli ultimi anni, anzi queste costruzioni vedono le loro prime apparizioni già a fine ottocento in alcuni rilievi di Oltralpe soprattutto in Austria e Germania, dove le funi metalliche venivano installate per agevolare la salita di alcune importanti montagne e belvedere.

In Italia le prime realizzazioni videro la luce nei primi del novecento in Dolomiti, prima fra tutte la Via Ferrata alla Cresta Ovest della Marmolada e poi nel gruppo del Sella con la costruzione della Ferrata alle Mesules. Si trattavano inizialmente di attrezzare con funi e pioli le vie dei primi salitori verso le cima delle più importanti montagne Dolomitiche, oppure per agevolare alcuni passaggi pericolosi lungo i sentieri alpinistici, vie che ancora oggi esistono e che rientrano tra le vie ferrate storiche classiche. Ben presto però, visto il notevole successo che riscontravano, grazie al fatto che facilitavano non poco la salita di pareti rocciose, iniziarono le costruzioni di molte altre vie, dalla celeberrima via delle Bocchette nel gruppo del Brenta alle famose vie di salita, che in molti casi ricalcavano i vecchi percorsi realizzati durante la Grande Guerra dalle truppe alpine (Strada degli Alpini, Monte Paterno, Ivano Dibona, etc). Più avanti nel tempo, e siamo agli anni 60 e 70, in pieno boom si iniziarono a costruire gran parte delle ferrate che oggi conosciamo, tra le più belle ma anche difficili di tutte le Dolomiti (come la Alleghesi, la Bolver-Lugli e/o la Costantini). La filosofia però cambia e si iniziano a prediligere percorsi più impegnativi e acrobatici lungo vie nuove, alternative, spesso dal sapore atletico-sportivo. Oggi questa tendenza continua non solo in Dolomiti ovviamente ma in tutto l’arco alpino, dalle numerose vie ferrate attorno al lago di Garda o nelle Prealpi Venete e Lombarde alle sportive ferrate Francesi e Austriache. In Italia ormai si contano almeno 500 ferrate di tutte le difficoltà e ben 150 si trovano nella sola area Dolomitica che pertanto viene considerata a buon diritto come l’eldorado per questa specifica pratica alpinistica.
Ponte sospeso nella famosa ferrata Dibona al Cristallo
La famosa ferrata Tridentina

Le scale finali nella ferrata Piz da Lech
La recente ferrata ra Bujela nelle Tofane
Ma perché del successo delle ferrate? Sicuramente per il semplice fatto che consentono ad un vasto pubblico di escursionisti e camminatori, senza grandi conoscenze tecniche, di vivere delle esperienze uniche su sentieri alpini alquanto impegnativi affrontando salite su roccia di stampo alpinistico anche se alpinisti non sono. In un epoca dove le attività adrenaliniche hanno la meglio, basti pensare al rafting, al parapendio oppure ai numerosi Agility Park che popolano i nostri fondovalle alpini, le vie ferrate rappresentano la moderna espressione del nuovo escursionista di montagna, forse meno desideroso di vivere intense esperienze con la natura e il silenzio ma sicuramente spinto dal desiderio di confrontarsi con itinerari atletici e sportivi sempre più difficili, cercando di guardare più alle performance e ai tempi personali. Non possiamo demonizzare questa pratica sportiva di montagna, soprattutto in tempi dove la crisi economica porta a drastici cali di presenza turistiche anche nelle Alpi, le vie ferrate richiamano migliaia e migliaia di appassionati che in alta stagione raggiungono molte famose località alpine e soprattutto dolomitiche proprio per percorre questi itinerari.

In ogni modo la costruzione delle vie ferrate è stata sempre accompagnata da polemiche e discussioni tra chi le riteneva inutile ferraglie che deturpavano le montagne e sviliva i veri alpinisti e chi invece le promuoveva e le promuove tutt’ora come l’occasione per proporre a neofiti un esperienza di alpinismo, mentre al contempo ha fatto anche sviluppare tutto un mercato legato all’editoria, all’attrezzatura e all’abbigliamento tecnico, contribuendo quindi alla crescita del business d’alta quota.

Dopo ben più di due secoli di storia, nel rapporto etico, sportivo e turistico uomo-montagna, spicca oggi una problematica assai forte: è giusto accettare, e magari anche promuovere, l’apertura al pubblico di altre vie ferrate in montagna?

Già dai primi anni 80 sono iniziati i primi dissensi nei confronti delle ferrate da parte di molte Associazioni Alpinistiche e pure il CAI, che in quegli anni (siamo nel 1981) elaborò con il Bidecalogo le sue prime norme di autoregolamentazione, sottoscrisse una presa di posizione contro la proliferazione di vie attrezzate in montagna. La Charta di Verona definì ancora meglio questa posizione e anche nella recente rivisitazione del Bidecalogo in chiave moderna approvato nel 2013 si ribadisce la posizione ufficiale che resta quella di essere contraria alla installazione di nuove vie ferrate e/o attrezzate, si adopera ovunque possibile, per dismettere le esistenti, con la sola eccezione di quelle di rilevante valore storico e/o per la messa in sicurezza di particolari passaggi lungo itinerari molto frequentati.

Possiamo dire che il problema delle vie ferrate gravita sostanzialmente su tre punti: sicurezza, ambiente ed etica.

Sicurezza: le vie attrezzate hanno il difetto di portare spesso molti neofiti ed inesperti su vie di roccia normalmente affrontabili da alpinisti e senza una necessaria preparazione questi semplici camminatori vogliosi di cimentarsi in qualcosa di più difficile possono mettere in serio pericolo se stessi e gli altri.

Ambiente: molto spesso le vie ferrate raggiungono luoghi particolarmente delicati dal punto di vista ecologico-ambientale; alcuni tracciati, sia per la vicinanza a comode strade di accesso e/o impianti di risalita sia per il facile avvicinamento, risultano particolarmente affollate, tanto da crearsi pure code all’attacco o nei punti chiave dei percorsi con ricadute negative su alcune zone di alta quota.

Etica: poter salire gran parte delle montagne raggiungendone la cima attraverso attrezzature metalliche che facilitano la progressione, annullando altresì le difficoltà tecniche oggettive della via, non risulta in linea con l’etica alpinistica che punta sulle capacità del singolo e sul senso di avventura e scoperta che solo una vera salita alpinistica è in grado di offrire.

Più recentemente anche il Club Arc Alpin (CAA), quale associazione internazionale di alpinismo che raggruppa i principali Club Alpini delle Alpi e che tra i suoi scopi ha quello di dare linee di indirizzo generali per tutti, ha nel 2009 espresso una propria posizione in merito alla questione.

In sostanza nel documento elaborato il CAA richiede quanto segue:


  • Un metodo di realizzazione moderato, coordinato da regione a regione e il coinvolgimento già dalle prime fasi del progetto di tutti i gruppi d’interesse, in particolare dei Club Alpini.

  • Nuove vie ferrate solo in zone o turistiche o attrezzate in altro modo, ovvero comunque raggiungibili o con i mezzi pubblici, o con gli impianti di risalita.

  • L’assoluta osservanza degli obblighi d’autorizzazione delle autorità preposte.

  • Il rispetto, in caso di nuovi progetti, delle esigenze di protezione della natura e della fauna.

  • Nessuna nuova via ferrata in zone d’alta montagna naturali e senza attrezzature.

  • Le montagne, le cui vette sono raggiungibili solo con una scalata, non possono essere attrezzate con vie ferrate.

Sta di fatto che il CAI ha smesso da diversi anni di costruire nuove ferrate, cercando invece di mantenere in buono stato le vie esistenti soprattutto quelle storiche e classiche, investendo di più nella manutenzione ordinaria.

Oggi, nonostante queste prese di posizioni, associazioni private, operatori turistici e guide alpine in testa continuano comunque a costruire vie ferrate sia a bassa quota che in alta quota proprio in zone come le Dolomti dove esistono fin troppi impianti e l’ulteriore proliferazione potrebbe produrre un affollamento eccessivo delle alte vette con tutti i rischi connessi, trasformando l’area, già sito Unesco, in un enorme LunaPark.

Un esempio tra tutte sono le Tofane, montagne tra le più famose ed amate, che dominano la conca di Cortina d’Ampezzo. Questo gruppo dolomitico possiede innumerevoli percorsi attrezzati che raggiungono tutte le sue cime principali oltre che a possedere un impianto funiviario in grado di raggiungere direttamente uno di questi tremila. Possiamo quindi solo immaginare che una montagna di questo tipo, per quanto affascinante sia, agli occhi dell’escursionista o alpinista consapevole, alla ricerca di luoghi da scoprire, di emozioni e di silenzi da godere, possa rappresentare un luogo poco appagante e privo di interesse.

Possiamo affermare concludendo che, pur riconoscendo alla pratica delle vie ferrate un modo per avvicinare il turista alla montagna, contribuendo alla ricchezza delle valli, non possiamo dimenticare tutti gli aspetti legati alla sicurezza, agli impatti ambientali ed etici che l’abuso e la proliferazione indiscriminata di tali infrastrutture può portare, snaturando la vera natura della ferrata, che è stata travisata nel corso degli anni portandola da mero mezzo per raggiungere un fine (che può essere un’escursione ad anello di ampio respiro, o il raggiungimento di una cima, o una spettacolare traversata, o ancora il ripercorrere vecchie vie di guerra) ad essere IL fine stesso dell’uscita.

Il Club Alpino Italiano, non essendo un associazione sportiva con scopi esclusivamente ludici o competitivi deve mantenere quel ruolo che gli spetta, sancito dall’art.2 del suo Statuto, ovvero essere un sodalizio sia di tutela che di frequentazione della montagna a 360°, in grado di analizzare attentamente le dinamiche che avvengono in montagna, senza integralismi ma per una tutela attiva dell’ambiente e del suo territorio.

Come afferma il nostro Past-President Annibale Salsa: “Se siamo frequentatori abituali dobbiamo collocarci non già dal punto di vista di una mera tutela passiva dell’ambiente, bensì da quello della tutela attiva. Ma la tutela attiva implica l’autodisciplina, ossia l’intelligenza del limite. La montagna è limite per definizione. La conoscenza del limite è l’atto morale consapevole che noi dobbiamo assumere in via prioritaria. La montagna sta diventando pericolosa in forza di tutta una serie di variabili, per cui dobbiamo imporci, per primi, dei limiti invalicabili”…..e ancora….”Il CAI deve contrastare la cultura dominante del no limits, con la quale non ha niente da spartire. La montagna è maestra del limite, lo diceva Goethe. I limiti oggettivi devono essere accettati, pur nella loro variabilità soggettiva. Quindi mettiamoci di impegno per essere educatori del limiti”.

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